Al San Ferdinando "Il servo" di Maugham diretto da Pierpaolo Sepe.
È difficile discernere un buono spettacolo da uno che non lo è se intorno a te il mondo che conoscevi si sta dissolvendo, inesorabilmente, in abbondanti rivoli di sudori e afrori, di fiati surriscaldati e sbuffi d'insofferenza. Il San Ferdinando sembra essere sprovvisto di un sistema di climatizzazione, o quello che c’è deve essere finito nelle pastoie di qualche impunito “provvederò”; in platea stormi di ventagli cartonati com’esuli pensieri nell’aria immobile del teatro vibrano febbrilmente. La sensazione di essere stretti in una soffocante morsa di approssimazione è davvero opprimente. All’infernale calura si aggiunge un elemento davvero inquietante: il programma di sala riporta informazioni decisamente sbagliate. Ci dice infatti che lo spettacolo durerà un’ora e trenta, mentre nella realtà ne passano più di due, e inoltre non fa alcun accenno ad una divisione dello stesso in due tempi, cosa che dopo circa un’ora e trenta di performance avviene con grande sorpresa degli astanti, non tutti pronti a sacrificare un’intera serata al dio sudaticcio del teatro. Parte il secondo tempo, si contano i disertori.
Fatte salve queste disumane condizioni fruitive, lo spettacolo Il Servo di Sepe e Renzi, tratto dal romanzo noir di Robin Maugham, è una discreta macchina scenica. La dialettica tra servo e padrone, che costituisce una tematica complessa e ricca di sfumature interpretative, è declinata in maniera ironica e claustrofobica, resa come una sorta di estenuante partita a scacchi tra due avversari apparentemente disinteressati all’esito dello scontro. I due protagonisti, il maggiordomo Barrett (Lino Musella) e il ricco ereditiere Tony (Andrea Renzi) si lasciano infatti manipolare dagli eventi, da un Maelstrom situazionale che sfugge perfino al diabolico e machiavellico “servo” che finirà con il perdere tutto il proprio contegno e la propria presenza di spirito di fronte alla spirale di corruzione e abbrutimento nella quale conduce il suo stesso padrone.
Il salotto della casa di Tony, simbolo di una classe sociale e di una secolare visione teatrale, campeggia al centro della scena, di tanto in tanto affiancato da scampoli di una camera da letto e di una cucina. I personaggi femminili sono altrettanti simboli, icone di visioni antitetiche del femminino: Sally, la fidanzata di Tony, è una donna in carriera che tuttavia non disdegna l’idea della famiglia e del matrimonio; Vera, l’amante di Barrett, è pura carne desiderante, donna predatrice e preda al contempo, oggetto di piacere e compiacimento. Come si diceva, uno spettacolo accattivante e ben congegnato.
Qualche dubbio lo solleva la partitura gestuale di alcuni personaggi in determinate situazioni: ad esempio, ad inizio del secondo tempo Sally scalza solleva le braccia e si lancia verso il proscenio saltellando. Il gesto dovrebbe esprimere lo sconcerto e lo smarrimento dei personaggi che segue all’ostracizzazione del signore della casa, il servo; tuttavia, all’interno di una impostazione recitativa tutto sommato di tipo tradizionale, esso finisce con il risultare meramente bizzarro e irrelato. Lo spettacolo finisce, raccogliamo alla meglio le nostre umide membra e torniamo a casa. Tuttavia, dentro qualcosa ci tormenta; non si tratta di quello che abbiamo visto, no, è qualcosa di più sconcertante, non è un disagio dell’anima toccata dalle dita vagamente adunche dello spettacolo, è un disagio di altro tipo: è il disagio del teatro!